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I cambiamenti climatici da ormai diversi anni manifestano i loro effetti anche qui in Italia: estati torride, piogge che sembrano tropicali, stagioni anomale. Abbiamo osservato eventi anche più estremi, come inondazioni, incendi favoriti dalle alte temperature, e di recente la secca del fiume Po, in grado di arrecare danni anche abbastanza gravi al nostro territorio.

Almeno in generale, tuttavia, nulla di tutto ciò ci ha privato della nostra casa, della nostra stabilità, costringendoci a cercare condizioni migliori di sopravvivenza altrove. Probabilmente le cose sarebbero andare un po’ diversamente se la nostra penisola fosse stata un “hotspot climatico”.

Si definiscono “hotspot climatici”, secondo la definizione del CNR-ISAC (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche) le zone della Terra in cui gli effetti del cambiamento climatico sono più visibili. Ad oggi rientrano in questa definizione Amazzonia, Sahel (una regione dell’Africa subsahariana), Africa occidentale, Indonesia (dove è stato celebre il caso della capitale Giacarta, che sarà spostata poiché sta “affondando” colpita dalle inondazioni causate dai cambiamenti climatici) e Asia centro-orientale.

Queste zone sono segnalate anche dal recente rapporto “Groundswell” redatto dalla Banca Mondiale e vengono individuate analizzando decenni di dati relativi soprattutto a temperatura e precipitazioni e prendendo in considerazione una serie di fattori come stress idrico, eventi climatici estremi, perdita di terra causata dall’aumento del livello dei mari e conseguente crisi agricola. Il rapporto è particolarmente importante in quanto è uno dei maggiori documenti ufficiali a sottolineare lo stretto legame tra crisi climatica e crisi umanitaria che ne potrebbe derivare, stimando che per il 2050 dovremo aspettarci che circa 216 milioni di persone lascino la propria casa per motivi legati al cambiamento climatico (numero che potrebbe ridursi anche dell’80% se dovessimo riuscire a contenere l’aumento delle temperature con azioni immediate mirate a ridurre le emissioni di gas serra).

La definizione di migrante climatico, sebbene non sia un neologismo ma un’espressione coniata già negli anni 70’ dallo scrittore e ambientalista Lester Brown (“environmental migrant”), è resa più difficile dal fatto che dietro i fenomeni di migrazione, del resto già in corso, possono celarsi le motivazioni più disparate ma indirettamente tutte causate dalla crisi climatica che stiamo attraversando. Inoltre, i migranti climatici provengono spesso da zone già afflitte da sottosviluppo, conflitti o povertà, ergo il fattore ambientale/climatico diventa semplicemente uno dei tanti. La stessa problematica, cioè, dipende in una buona parte dei casi da un mix di stress ambientali, economici e sociali.

Per questa ragione o forse per la generale disattenzione che caratterizza da sempre la classe politica internazionale per il problema ambientale, i media non trattano spesso l’argomento e ottenere misure di protezione sociale è un traguardo ancora lontano per coloro che cercano migliori condizioni di vita anche entro i confini della propria nazione e che non possono ancora vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, poiché il diritto internazionale su questa casistica è ancora gravemente lacunoso. L’ultima convenzione internazionale sullo status di rifugiati, quella firmata a Ginevra nel 1951, non contempla la figura del rifugiato climatico e sono tutt’ora in corso richieste di enti, agenzie internazionali come la UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ai governi di norme per la tutela delle persone costrette a fuggire dalle catastrofi naturali e dai mutamenti ecosistemici di origine antropica.

Cristina Gramegna

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