L’aspetto più epidermico dell’inquinamento da plastica nell’agro e sulle spiagge è certamente rappresentato dai rifiuti da imballaggi o da oggetti di uso quotidiano che chiunque può trovare in giro e, con un po’ di volontà, rimuovere. Non sarebbe però possibile parlare di come la plastica stia inesorabilmente occupando gli ecosistemi e persino gli organismi trascurando la parte sommersa dell’iceberg: la plastica in frammenti, o microplastica.
Quando si parla di microplastiche e nanoplastiche ci si riferisce ai frammenti di polimeri plastici di diametro inferiore a 5 mm. Poiché le loro dimensioni raggiungono anche l’ordine dei micrometri e dei nanometri, in alcuni casi si tratta di particelle invisibili ad occhio nudo: caratteristica che, unita alla loro estrema leggerezza, rende le microplastiche la sostanza più adatta a sfuggire alla vista e a diffondersi silenziosamente nell’ambiente.
Secondo l’ECHA (Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche), si stima che ogni anno circa 42 000 tonnellate di microplastiche finiscano nell’ambiente e i monitoraggi ambientali dei principali enti adibiti al controllo dei dati ambientali (le varie agenzie ARPA e il GLOBE Program, solo per citarne alcuni) riferiscono che sono state campionate microplastiche in quasi tutti gli ecosistemi, nei suoli agricoli, nelle acque superficiali e soprattutto in mari e oceani. Qui vanno a costituire quello che viene definito “microlitter” e a depositarsi sulla superficie, motivo per cui si utilizza una speciale rete “manta” per effettuare i campionamenti.
Tracciare una mappa dell’origine delle microplastiche è un lavoro complesso, dal momento che innumerevoli oggetti con cui veniamo in contatto quotidianamente le contengono. Molte sono microplastiche primarie, aggiunte intenzionalmente in prodotti detergenti, cosmetici o prodotti per la cura del corpo (ad esempio, le “microbeads”, sferette di plastica che si trovano negli scrub o nei dentifrici), in alcuni fertilizzanti e prodotti per l’agricoltura, o in alcune vernici. In questa categoria rientrano anche le microfibre derivanti dal lavaggio di capi sintetici. Le microplastiche secondarie, invece, derivano dalla degradazione di rifiuti in plastica più grandi per fenomeni atmosferici o abrasivi. Non da ultimo, è stato osservato che le mascherine in tnt, la cui produzione è aumentata esponenzialmente durante la pandemia Covid, se non correttamente smaltite e disperse nell’ambiente possano rilasciare fino a 173,000 microfibre al giorno (come si legge in un articolo pubblicato da ricercatori dell’università Milano Bicocca*).
Ciò che è certo è che in questo modo i frammenti di plastica vengono in contatto con gli esseri viventi, entrano a far parte della catena alimentare e giungono all’organismo umano attraverso l’alimentazione (in altri casi, attraverso la respirazione, se consideriamo le microplastiche che possono essere trasportate e viaggiano nell’atmosfera anche per diversi chilometri). Molte ricerche sugli effetti a lungo termine delle microplastiche sugli organismi viventi e nella fattispecie, sull’uomo, sono ancora in corso, nonostante in alcuni casi la presenza di microplastiche sia già accertata. L’anno scorso, ad esempio, ha fatto grande scalpore la rilevazione da parte di un team di ricercatori italiani, di microplastiche nella placenta umana**.
Le soluzioni, almeno per quanto riguarda le normative europee, prevedono il divieto di vendita di alcuni prodotti a cui siano intenzionalmente state aggiunte microplastiche, oltre alla più o meno rapida liberazione dell’usa e getta di cui si parla da tempo e che dovrebbe portare ad uno stile di vita sempre più all’insegna del “plastic free”. Inoltre la degradazione delle plastiche è anche al centro di un ramo estremamente fertile e innovativo delle biotecnologie, quale è il biorisanamento o bioremediation, che potrebbe nel prossimo futuro rappresentare una valida arma nella lotta contro un nemico così subdolo e ubiquitario.
Se tutti questi dati possono risultare algidi, distaccati dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi, basterebbe riportare l’esperienza di un clean up sulla spiaggia in cui era letteralmente impossibile separare la massa di alghe depositate dalle maree, dai frammenti di plastica che vi erano incastonati, e che dimostrano come l’entità di questo problema vada al di là anche del più accurato clean up.