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Un po’ di storia Dallo scorso 6 novembre, e fino al 18, si terrà a Sharm el-Sheik in Egitto la conferenza delle parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici o UNFCCC. Sigle illeggibili a parte, il concetto è che negli anni 90, quando cominciarono sul serio a circolare non solo in ambito scientifico ma anche mediatico notizie sul riscaldamento climatico, si cominciò a indagare a livello internazionale sul problema. Nacque l’IPCC (l’ente che stila i rapporti che riassumono tutte le conoscenze scientifiche sul cambiamento climatico), fu approvato il Protocollo di Kyoto nel 1997, si tenne il primo Summit della Terra nel 1992 e da allora in varie sedi in tutto il mondo i leader di tutte le nazioni iniziarono a partecipare a queste conferenze annuali, nate con l’intenzione di sollecitare la cooperazione internazionale per la stabizzazione delle emissioni di gas serra.

Perché in Egitto? La scelta della nazione africana vuole ricordare che questo continente comprende alcune delle zone del mondo già colpite dagli effetti dell’avvenuto cambiamento climatico in termini di carestie, effetti della migrazione climatica, desertificazione.

Chi partecipa? Capi di stato, di governo e diplomatici dei 195 Paesi che costituiscono la Convenzione e in più ONG e società civile.

Di cosa si parlerà? I temi della conferenza sono raggruppati in quattro principali aree: mitigazione, adattamento, finanza e collaborazione.

Si parlerà della presente e prossima attuazione dei precedenti accordi di Parigi del 2015 e se il limite fissato per il contenimento delle temperature entro 1.5 gradi è ancora un limite realistico o se invece è necessario mettere in conto la spesa per i danni previsti e già provocati dalle attuali modifiche del clima e tutelare le comunità sotto pressione per gli stress ambientali (mettere in atto quella che alcuni chiamano resilienza, o per altri resistenza, ai cambiamenti climatici) facendo di tutto per non superare tuttavia i 2 gradi, limite massimo oltre il quale le conseguenze del cambiamento possano essere minimamente sotto il controllo umano.

Uno degli obiettivi della Cop27 è quello di trovare accordi per implementare strategie mirate ad una transizione verso un sistema energetico e produttivo sostenibile ambientalmente ed etico con un equo contributo di tutti i partecipanti.

Altri argomenti discussi saranno la crisi energetica e in particolare le conseguenze della guerra in Ucraina.

Che vuol dire “Loss and Damage”? Una delle tematiche di maggiore interesse sul tavolo negoziale è il “loss and damage”, ovvero le perdite ed i danni economici, materiali ed immateriali correlati direttamente o indirettamente ai cambiamenti climatici. La valutazione dell’impatto dei cambiamenti climatici è però problematica in quanto non sempre è possibile quantificarli in termini economici, come avviene per i danni alle infrastrutture, alla salute delle persone, le perdite di produzione agricola; altri impatti sono annoverati tra le “perdite non economiche” e comprendono la perdita di biodiversità, di territorio a causa dell’innalzamento del livello del mare, di patrimonio culturale, di conoscenze indigene. Altro tema di grande rilevanza sono le possibili perdite causate dalla crescente migrazione umana indotta dal clima. Il “loss and damage” è stata ufficialmente riconosciuta solo dall’Accordo di Parigi del 2015 nell’articolo 8, nel quale si incoraggiano i Paesi a collaborare nell’elaborazione di sistemi di allerta preventiva e a cooperare sul tema delle riparazioni e della quantificazione, della gestione del rischio e relative assicurazioni. È Interessante notare come la parola riparazione però non venga mai ufficialmente menzionata, sintomo della necessita di trovare un delicato equilibrio tra i vari attori economici e politici in gioco. Le regioni maggiormente colpite da eventi climatici estremi sono le aree cosiddette “in via di sviluppo” o a basso reddito. Si stima che in tali Paesi dal 1991 circa 189 milioni di persone sono state direttamente o indirettamente danneggiate da uno o più eventi climatici catastrofici. Queste realtà non dispongono da un lato delle risorse economiche per poter fronteggiare i sempre più frequenti disastri naturali correlati ai cambiamenti climatici e dall’altra parte denunciano una maggiore responsabilità storica dei Paesi del blocco Occidentale per la precaria situazione ambientale. Per tali ragioni da decenni alcuni Paesi chiedono sempre più preponderatamene agli stati occidentali di coprire anche economicamente i danni le e perdite correlate agli eventi atmosferici estremi, situazione che ha visto la ferma opposizione dei Paesi più “sviluppati”. I Paesi più vulnerabili inoltre richiedono di considerare anche economicamente il “Loss and Damage” come il terzo pilastro della politica climatica internazionale accanto alla mitigazione e all’adattamento. Ciò favorirebbe anche la possibilità di poter utilizzare nuove risorse dei bilanci pubblici per lo sviluppo di nuove politiche e infrastrutture dedicate al tema. La richiesta principale è la sottoscrizione di un accordo sulla costituzione di un fondo di finanziamento specifico internazionale su “Loss and Damage”. Questo fondo considerate le problematiche a cui dovrebbe rispondere, dovrebbe essere flessibile, composto di misure stratificate, in modo da poter fornire un sostegno su misura ai paesi che ne necessitano. Dovrebbe, inoltre, essere possibile attivarlo tempestivamente nel caso delle emergenze, prevedendo l’accesso diretto al fondo e superando così l’impostazione a progetto che prevede lunghi tempi di attuazione Fondamentale dovrebbe essere nella costruzione id questo strumento l’apporto e il ruolo delle comunità locali, primi attori ad essere direttamente colpiti dai cambiamenti climatici e che meglio conoscono il territorio e le sue necessità. Alla suddetta strategia i Paesi ad alto reddito si oppongono in quanto evidenziano la necessità non di costruire strutture nuove ma di catalizzare quelle esistenti verso questi bisogni specifici. Nonostante le divisioni vi sono alcuni segnali positivi per un possibile accordo tra le parti. Entrambe le posizioni riconoscono il bisogno di maggiori investimenti in politiche dedicate a gestire situazioni di emergenza e a sviluppare azioni preventive per preservare patrimoni culturali, ambientali e territoriali a rischio distruzione.

Quali sono le principali critiche mosse alla Cop27? La scelta degli sponsor, in particolare Coca Cola, hanno fatto gridare molti attivisti al greenwashing avendo l’azienda un enorme commercio di bottiglie in pet su scala internazionale.

La disparità economica tra i paesi partecipanti e la scarsa disponibilità di alcuni dei maggiori emettitori ad attuare praticamente quanto dichiarato aumentano il rischio che si vada poco oltre sterili trattative e ancora più inattuabili propositi secondo il parere di alcuni analisti. Questa è la ragione per cui numerose realtà anche all’avanguardia della lotta ambientalista se ne sono distaccate.

Ma non è tutto: l’Egitto è un paese al centro di numerose polemiche che riguardano il rispetto dei diritti umani (per giunta anche per il trattamento di manifestanti ambientalisti) ed è sotto accusa delle principali organizzazioni attive in quest’abito, come Amnesty International.

A che punto siamo con gli obiettivi posti l’anno scorso? Dalla scorsa conferenza di Glasgow solo 24 dei 195 Paesi hanno aggiornato i loro piani per allinearli alle richieste dell’IPCC, ma soprattutto è stato calcolato che le misure che sono ad oggi state intraprese per contrastare il superamento della soglia di 1.5 gradi non solo sono insufficienti, ma l’aumento risulterebbe “contenuto” nei 3.5, ben oltre il valore necessario a sperare in un futuro di sopravvivenza per la nostra specie. Va da sé che ciò che sarà stabilito i prossimi giorni ( e ciò che non sarà stabilito) potrebbe avere un’eco che nemmeno riusciamo a immaginare sui prossimi anni.

Cristina Gramegna, Iris Ahmetovic

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