quel che conta è come la Politica si interfaccia nelle grandi crisi umanitarie e sociali
Negli ultimi anni sì è sempre più diffusa la convinzione che i cambiamenti climatici siano uno dei fattori fondamentali nell’aggravarsi della precaria situazione geopolitica internazionale. Secondo questa prospettiva la scarsità di risorse sarà cruciale nello scoppio di nuovi conflitti regionali ed internazionali.
È davvero così?
Ricerche più approfondite, però, hanno dimostrato che l’elemento cardine sono le modalità con le quali il sistema economico e politico decide di fronteggiare le inedite sfide che il cambiamento climatico pone, come la già menzionata scarsità delle risorse. Quindi: il cambiamento climatico gioca la sua parte, ma non è il vero antagonista, o perlomeno non sempre.
L’esempio emblematico fu lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011.
Sociologi, politologi ed esperti di sicurezza internazionale avevano dato l’allarme sul ruolo della grave siccità che aveva colpito la regione, a cui era susseguito lo spostamento in massa di agricoltori da zone rurali ai centri abitati. Secondo alcuni ricercatori, il sovraffollamento dei centri urbani, la crescente inflazione, seguita dall’ampliarsi della forbice tra ricchi (classe dirigente) e poveri (contadini in cerca di lavoro in città) avrebbe dato origine a rivolte ed insurrezioni popolari. Ricerche più approfondite hanno in seguito evidenziato il ruolo marginale delle fasce rurali della popolazione, le quali, sebbene fossero maggiormente colpite dai cambiamenti climatici, tendevano a non interferire con le dinamiche delle altre classi sociali presenti in città. Si fa inoltre presente che le rivolte popolari erano in larga parte composte da giovani studenti e studentesse, mossi da una coscienza collettiva ed esigenze totalmente differenti da quelle dei contadini.
Alcune analisi dimostrano quindi che non vi è concausazione tra cambiamento climatico e scoppio di conflitti anche se di certo giocano un loro ruolo.
Da questo quadro appare evidente la necessità di concentrare gli sforzi politici in strategie capaci di rispondere alle necessità delle popolazioni o delle comunità colpite da calamità naturali, anziché considerarle come possibili vittime del cambiamento climatico per poi essere etichettate come carnefici o responsabili morali nelle rivolte o nei disordini politici.
Chi ne beneficia?
Nonostante ciò, la narrazione dominante enfatizza il pericolo causato dai cambiamenti climatici come fonte di conflitti sociali violenti, tanto che le fasce della popolazione colpite dacatastrofi naturali sono dipinte in primis come una minaccia alla sicurezza. Questa retorica sembra aliena alle nostre orecchie assuefatte dall’etichetta perbenista di popoli che “fuggono dalla guerra” o “vivono in una dittatura”. Tuttavia le parole “guerra” e “dittatura” lasciano sempre di più sottintendere una non ben identificata –quasi magica –relazione con i cambiamenti climatici, permettendo due conseguenze. Da un lato si delega la responsabilità politica e morale delle guerre a fattori sempre meno controllabili (il clima) e meno antropici (multinazionali e attori politici), di conseguenza legittimando quegli stessi disordini sociali nonché le necessarie conseguenze (repressioni, ostacoli burocratici e fisici alle migrazioni, uso massiccio delle forze armate, dipendenza dalle risorse militari e finanziarie di Paesi più ricchi). Dall’altro lato si toglie sempre più il diritto all’autodeterminazione al Paese stesso, un po’ come un tutore ha più diritto di veto sul suo protetto, in quanto dichiarato soggetto “fragile”
Si stima che nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, circa 189 milioni persone sono state colpite dal 1991 da eventi meteorologici estremi: ciò ha aumentato i flussi migratori verso paesi meno affetti o dotati di infrastrutture e tecnologie capaci di garantire la sopravvivenza ai disastri naturali. Si deve notare che in larga parte quelle regioni sono non allineante geopoliticamente con gli interessi dell’asse occidentale i quali tra l’altro sono i maggiori responsabili per i cambiamenti climatici.
Conseguentemente al crescente senso di insicurezza percepito a livello nazionale ed internazionale, si richiede di investire in politiche che puntino alla “sicurezza”
Questo termine, nonostante suoni –perdonate il gioco di parole –rassicurante, sottace tutte quelle politiche mirate a difendere i confini nazionali e a garantire con gli strumenti necessari il mantenimento delle catene di approvvigionamento degli attori economici rilevanti per un determinato Stato (grandi aziende, multinazionali, conglomerati…). Le parole in corsivo vanno lette in tono mellifluo e vagamente minaccioso.
Tutto perfettamente in linea con l’attuale cultura dell’emergenza a scapito di quella della prevenzione. Cultura che per sua natura, legittima e giustifica risposte ad alto impatto socio-umanitario ed economico (spesa bellica, servizi di sorveglianza).
Il dipartimento di Difesa degli Stati uniti già dal 2003 considera il cambiamento climatico come “moltiplicatore di minacce” nonché motivo di insicurezza internazionale, prospettiva adottata anche a livello europeo e nazionale.
“Il cambiamento climatico sta rendendo il nostro mondo più pericoloso” con queste parole il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg in occasione della Cop26 di Glasgow (31 ottobre-12 novembre 2021) ha definitivamente sancito la chiara lettura esclusivamente politica adottata a livello internazionale.
L’aggravarsi della situazione ecologica mondiale e l’insicurezza che ne deriverebbe sono uno dei motivi alla base delle continue e pressanti richieste dell’aumento della spesa militare da parte dell’apparato industriale militare
Una larga parte dei budget vengono utilizzati per la militarizzazione delle frontiere, come strategia di gestione dei flussi migratori. Le persone sfollate a causa di siccità, erosione dei territori, alluvioni, sono sì narrate in chiave vittimistica ed a volte pietistica, ma di fatto gestite come si gestirebbero delle vere e proprie minacce, ricorrendo a misure simili a quelle che si hanno negli attacchi ibridi da parte di nazioni straniere.
Prospettive future
In occasione della Cop26 la NATO ha annunciato anche l’impegno poi sfociato nell’elaborazione della strategia Nato2030 per impegnarsi a ridurre le emissioni di gas terra.
La metodologia e la rendicontazione delle emissioni sono però tutt’ora secretate e non è possibile verificare in maniera sistematica da un ente esterno ed imparziale l’effettivo impegno in tale direzione.
A livello internazionale sembra piuttosto che la strategia adottata attualmente consista nell’aumentare la spesa per mantenere e potenziare gli apparati militari e di sicurezza, mettendo in secondo piano ricerca scientifica, politiche migratorie che siano volte alla cura ed all’accoglienza, protocolli comuni per il controllo e la gestione di sostanze inquinanti, varo di piani che potrebbero aiutare concretamente le realtà colpite dai cambiamenti climatici e mitigarne gli effetti sul lungo periodo, nonché prevenirli.
Ovviamente questo articolo non prende in considerazione la dinamica che si sta dipanando ora nell’attuale drammatica guerra in corso in Ucraina, né vuole esaminare la bontà o meno delle spese belliche recentemente varate in seno alle Istituzioni europee, ma di certo vuole tenere alta la guardia –di nuovo –rispetto a quella retorica della guerra come male necessario o come conseguenza ineluttabile.
Il cambiamento climatico è una tematica talmente ubiqua che non può fare a meno di toccare tutto ciò che esiste, ma non per questo bisogna usarlo come una risposta tuttofare o come una scusa per rinunciare a capire cosa sta accadendo, soffermandosi su un quadro generale della situazione. Infine se è vero che il cambiamento climatico è ormai inevitabile, è altrettanto vero che la risposta che noi e gli attori politici ne diamo non è affatto scritta su pietra.